Per avviare la stessa attività: 7 anni e 5mila firme in Italia, 11 mesi e 5 firme negli USA
Questa è una storia italiana. A settembre del 2012 il pastificio Rana SpA, il
più noto ed affermato pastaio italiano nel mondo insieme a Barilla, ha
inaugurato il suo nuovo stabilimento di San Giovanni Lupatoto, nella provincia
di Verona. In effetti, il nuovo impianto, che ha richiesto un investimento di 65
milioni di euro, rappresenta l’ampliamento di quello storico della Rana SpA, a
seguito di una decisione presa nel 2005 sull’onda di un successo commerciale a
dir poco travolgente, che ha consentito di raddoppiare la capacità produttiva di
pasta e sughi, portata da 25mila a 50mila tonnellate di prodotti freschi l’anno.
Nel frattempo a primavera del 2011 il gruppo Rana prende la decisione di
consolidare ed estendere la propria presenza anche sui mercati internazionali
con la realizzazione di un impianto produttivo più vicino alla clientela
d’oltreoceano, nei pressi di Chicago, nel cuore degli Stati Uniti. E’ lo stesso
governatore dell’Illinois a darne l’annuncio da Springfield, capitale dello
stato dell’Illinois a maggio del 2011. Una mossa di enorme rilevanza strategica
e di grande impatto sulla clientela, che consentirà al gruppo Rana di avvalersi
della qualità dei fornitori locali, e degli enormi vantaggi che quella posizione
concede in termini di logistica, trasporti e rete di distribuzione per offrire
alla clientela del continente americano un prodotto fresco della stessa qualità
di quello che esce dalle impastatrici del Veneto. Una iniziativa importante e
coraggiosa, che adesso in tanti dall’Australia al Canada, da Taiwan al Giappone
si augurano che venga replicata nei loro Paesi al più presto. Lo stabilimento
americano di fatto è l’esatta replica del modulo di espansione inaugurato nel
2012 a Verona: stesso progetto, stesse tecnologie, stesse linee di produzione,
stessa capacità produttiva di 25mila tonnellate, con una sola inessenziale
differenza, che lo stabilimento di Chicago sorge su un’area di 14mila metri
quadri su un solo livello, mentre a Verona l’impianto madre, che produce il
doppio, occupa 18mila metri quadri e si articola su due piani. Pure la data
dell’inaugurazione dell’impianto americano è la stessa di quello italiano,
settembre 2012. Ma questo non è un dettaglio, nè una coincidenza, ma uno
spietato atto d’accusa nei confronti della burocrazia italiana, perchè per
trasformare un’idea in un progetto industriale, e questo in una realtà
produttiva, a Verona sono occorsi 7 anni, nell’Illinois meno di uno, 11 mesi per
l’esattezza, dal kick-off alla produzione del primo tortellino made in the USA.
Racconta infatti Gian Luca Rana, figlio di Giovanni, il popolare fondatore
dell’impresa italiana: “Quando acquistammo il terreno a Bartlett, hinterland di
Chicago, noi avremmo firmato per ottenere di avviare la produzione locale nel
giro di tre anni, nel corso del 2014. Ma appena qualche giorno dopo aver saputo
che avevamo presentato un progetto di massima, nell’ottobre del 2011, Pat Quinn,
il governatore dell’Illinois, ci volle conoscere per ringraziarci calorosamente
per aver scelto il distretto di Bartlett per la nostra iniziativa industriale.
Era entusiasta per i 200 posti di lavoro che si venivano a creare, per
l’indotto, per l’economia che girava attorno alla nostra fabbrica. Mi chiese
cosa avrebbe potuto fare per noi. Eravamo imbarazzati da tanta cortesia, così
lui ci mise a disposizione una sua segretaria cui avremmo potuto rivolgerci in
qualsiasi momento e per qualsiasi problema. Dopo qualche altro giorno, senza
preavviso, ci comunicarono che il board di approvazione del progetto si sarebbe
riunito all’indomani per la sua valutazione. Eravamo disperati, perchè abituati
ai tempi italiani non avevamo ancora predisposto il piano di dettaglio corredato
dai cronogrammi e da tutto il resto. Ma ci tranquillizzarono: l’importante era
avere a disposizione l’area, aver espresso un’idea valida ed aver predisposto un
business plan di massima. Insomma in 15 giorni siamo passati dalla richiesta
all’approvazione definitiva per la quale sono servite in tutto solo 5 firme”.
Per completare l’iter analogo ed avere il via libera in Italia ci sono voluti
quasi 3 anni, dal 2005 al 2008 e la bellezza di 5mila firme. Poi la costruzione,
che a Chicago è andata avanti a marce forzate lavorando 24 ore al giorno, perchè
d’inverno a venti o trenta gradi sotto zero le gettate di cemento non si possono
fare. Durante quella fase, il cantiere del nuovo stabilimento è stato visitato
più volte da funzionari dei vigili del fuoco e della polizia, ma erano
interventi mirati a fornire supporto e consigli sui sistemi di sicurezza,
anti-incendio ed anti-intrusione. Addirittura sono intervenuti a consigliare
sistemi meno sofisticati di quelli previsti dal progetto per il filtraggio
dell’aria di condizionamento, facendo risparmiare 3 milioni di dollari sui costi
di costruzione. Un’altra volta è successo quella che in Italia sarebbe stata una
catastrofe: una variante di progetto per creare lo spazio per un silos ed una
caldaia inizialmente non previsti. Da noi si sarebbe bloccato tutto per mesi, se
non per anni; laggiù è bastata una telefonata per avere l’autorizzazione alla
modifica per iscritto ed in 48 ore. A Verona invece si sono impiegati quasi
quattro anni a completare la costruzione dell’impianto rallentata in
continuazione da intoppi, diffide, ricorsi e miriadi di autorizzazioni da
ottenere. E’ la mentalità, la cultura industriale che sono differenti. Negli USA
gli imprenditori sono dei benemeriti che vengono aiutati e facilitati dalla
pubblica amministrazione, è gente apprezzata perchè rischia in proprio per
creare ricchezza, lavoro e gettito fiscale a beneficio della collettività. Qui
sui guarda ancora con sospetto agli imprenditori, per lo più ritenuti dei biechi
individui che si vogliono arricchire alle spalle della società in cui operano.
Persino ora che se ne ammazzano due al giorno e che decine di migliaia di
imprese chiudono ogni mese, ancora una settimana fa Landini della Fiom tuonava
che il problema in Italia è la distribuzione della ricchezza (ma quale?),
minacciando rappresaglie sociali che sortiscono solo l’effetto di spaventare gli
investitori nazionali e stranieri. C’è da piangere nel mettere a confronto
l’atteggiamento positivo e producente del governatore dell’Illinois, con quello
di un altro governatore, quello della Regione Puglia il quale ha frapposto così
tanti ostacoli alla realizzazione di un progetto per un impianto di
rigassificazione a Brindisi, da convincere la British Gas Italia a rinunciare
all’iniziativa dopo 11 anni di tentativi andati a vuoto e lo sperpero di 250
milioni di euro di investimenti tra progettazione, terreno, opere di
consolidamento ed urbanizzazione ed un mare di spese
legali-burocratico-amministrative. Invece di mettere guide rosse al passaggio di
chi stava investendo 1.200 milioni di euro per creare più di mille posti di
lavoro stabili in una regione di emigrati e di disoccupati, hanno decretato che
l’impianto poteva essere pericoloso. Infatti, dei due impianti suoi gemelli, uno
funziona perfettamente da sei anni e senza problemi nel Galles e l’altro
addirittura al centro di Barcellona, da dove alimenta l’intera rete del gas
della Catalogna. Detto questo, siamo sicuri che d’ora in poi quando si sentirà
dire che “occorre attrarre ed incentivare gli investimenti in Italia” sapremo
bene tutti cosa significa e di chi è la colpa di questa disastrata e disastrosa
situazione, precisando peraltro che in tutto questo non abbiamo menzionato il
problema della mancanza di diritto nel nostro Paese. Perchè se per dirimere un
contenzioso commerciale occorre portare avanti una causa civile che può durare
15 anni, o più, chi è quel pazzo che arrivando dall’estero, una volta saputo
come stanno realmente le cose, insisterebbe per investire in Italia? Al posto
loro voi lo fareste?
http://www.qelsi.it/2013/per-avviare-la-stessa-attivita-7-anni-e-5mila-firme-in-italia-11-mesi-e-5-firme-negli-usa/