«Beatissimo Padre, un mio trasferimento in questo momento provocherebbe
smarrimento e scoramento in quanti hanno creduto fosse possibile risanare tante
situazioni di corruzione e prevaricazione da tempo radicate nella gestione delle
diverse Direzioni (del governatorato, l’amministrazione vaticana, nda)». È il 27
marzo del 2011. A rivolgersi in termini così drammatici direttamente a Benedetto
XVI, denunciando privilegi, corrutele e zone opache Oltretevere, è un sacerdote
di primo piano. Carlo Maria Viganò, un monsignore che viene incaricato
nell’estate del 2009 su fiducia del Santo Padre a controllare tutti gli appalti
e le forniture del Vaticano. La sua opera di tagli e pulizia dà fastidio. Tanto
che finisce vittima di una congiura per bloccare l’opera di pulizia che aveva
avviato. Da novembre Viganò è stato rimosso. È diventando nunzio apostolico a
Washington negli Stati Uniti, andando a ricoprire la più prestigiosa
rappresentanza diplomatica della Santa Sede nel mondo.È una vicenda inquietante
quella denunciata da Viganò al Papa, che riporta indietro le lancette in
Vaticano agli anni dei silenzi, delle omissioni, delle denunce silenziate, della
rimozione di chi cercava di colpire privilegi, di chi voleva allontanare i
mercanti dal Tempio finendo invece lui allontanato, vittima delle sue denunce.
Stavolta però Viganò non tace, reagisce a certe logiche della Curia Romana e
scrive al Papa e al segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone. Di più,
chiede ai sensi del diritto canonico che sia aperta una commissione di inchiesta
su questa vicenda. Si lavora così nelle segrete stanze dei Sacri Palazzi. Chi
viene sentito non deve farne parola con nessuno. Tanto che diverse delle persone
contattate, come Ettore Gotti Tedeschi, il presidente dello Ior, la banca del
Papa, fa esplicito riferimento all’imposizione del segreto pontificio che
vincola le persone che vengono ascoltate. Un segreto che violato prevede sino
alla scomunica, un segreto – giusto per avere un paragone – che venne posto
sullo scandalo dei preti pedofili.
«Quando accettai l’incarico al
Governatorato il 16 luglio 2009 – scrive Viganò il 4 aprile 2011 al Papa – ero
ben conscio dei rischi a cui andavo incontro, ma non avrei mai pensato di
trovarmi di fronte ad una situazione così disastrosa. Ne feci parola in più
occasioni al Cardinale Segretario di Stato, facendogli presente che non ce
l’avrei fatta con le sole mie forze: avevo bisogno del suo costante appoggio».
Appoggio che Viganò fa capire non esserci stato. Le finanze sono in uno stato
disastroso: «La situazione finanziaria del Governatorato -prosegue -, già
gravemente debilitata per la crisi mondiale, aveva subito perdite di oltre il
50/60%, anche per imperizia di chi l’aveva amministrata. Per porvi rimedio, il
cardinale presidente aveva affidato di fatto la gestione dei due fondi dello
Stato ad un Comitato finanza e gestione, composto da alcuni grandi banchieri, i
quali sono risultati fare più il loro interesse che i nostri. Ad esempio, nel
dicembre 2009, in una sola operazione ci fecero perdere 2 milioni e mezzo di
dollari. Segnalai la cosa al Segretario di Stato e alla Prefettura degli Affari
Economici, la quale, del resto, considera illegale l’esistenza di detto
Comitato. Con la mia costante partecipazione alle sue riunioni ho cercato di
arginare l’operato di detti banchieri, dai quali necessariamente ho dovuto
spesso dissentire». In effetti questo gruppo di banchieri opera senza
riconoscimento legale e amministra quasi 300 milioni di investimenti ogni anno.
Un portafoglio che si è ridotto – per le perdite – negli ultimi
anni.
Chi sono questi banchieri? Volti noti della finanza cattolica.
A presiedere il comitato c’è Pellegrino Capaldo, banchiere schivo, già
presidente della banca di Roma. Era nella commissione segreta vaticana che
concordò il «contributo volontario» per sollevare lo Ior da qualsiasi
responsabilità nel crac dell’Ambrosiano con Paul Casimir Marcinkus che portò a
Ginevra il 25 maggio 1984 insieme a monsignor Donato de Bonis (quello che dieci
anni dopo riciclerà la tangente Enimont ricevuta da Luigi Bisignani sempre allo
Ior) l’assegno del silenzio da 242 milioni di dollari. Troviamo poi Gotti
Tedeschi, nel comitato fino a quando non è andato al vertice della banca del
Papa, Massimo Ponzellini, già numero uno della Popolare di Milano, indagato per
associazione a delinquere dalla procura di Milano nell’inchiesta sui
finanziamenti Bpm al gruppo dei videogiochi Atlantis, e Carlo Fratta Pasini,
scupoloso presidente della popolare di Verona.
Viganò taglia i
costi e dà sempre più fastidio: «La Direzione dei Servizi Tecnici era quella più
compromessa – prosegue -, da evidenti situazioni di corruzione: i lavori
affidati sempre alle stesse ditte, a costi almeno doppi di quelli praticati
fuori del Vaticano». La lista dei tagli è infinita, sempre documentata al Papa:
«I costi dei lavori sono stati quasi dimezzati». Insomma Viganò taglia del 50%
medio ogni lavoro nel piccolo Stato. Un caso su tutti? «Il presepe di piazza S.
Pietro del 2009 era costato 550.000 euro, quello del 2010 300 mila euro». E
anche il bilancio ne guadagna passando dal passivo -7,8 milioni a un attivo di
oltre 34 in dodici mesi. Ma l’opera viene «spesso apertamente contrastata, a
volte chiaramente boicottata». Tanto che passano pochi mesi e parte «una
campagna stampa contro di me e azioni per screditarmi presso i superiori, per
impedire la mia successione al cardinale presidente Lajolo, tanto che ormai è
stata data per scontata la mia fine». Nel mirino di Viganò degli articoli
ritenuti diffamatori usciti su Il Giornale che sarebbero stati confezionati ad
hoc per delegittimarlo. Articoli non riconosciuti dal vaticanista del
quotidiano dell’epoca, Andrea Tornielli. Articoli non firmati ma Alessandro
Sallusti, il direttore, respinge che si tratti di una manovra denigratoria:
“Avevamo all’interno del Vaticano un insider che scriveva per noi». Quegli
articoli sarebbero uno degli strumenti della congiura denunciata dal monsignore.
Nel carteggio, Viganò indica anche i nomi e cognomi dei congiurati. Monsignori e
laici che avrebbero tramato per interrompere la pulizia su appalti e forniture.
Tra questi Viganò indica anche un nome ormai noto alle cronache, il giovanissimo
Marco Simeon, amico del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone,
direttore dei rapporti istituzionali della Rai, consigliere in una fondazione in
Vaticano. Simeon batte ogni record in una carriera folgorante: da Genova viene
proiettato da giovanissimo all’ombra di Cesare Geronzi prima in Capitalia poi in
Mediobanca, tanto da diventare uno dei pontieri da Santa Sede e istituzioni
italiane. Non da ultimo persino al professor Mario Monti viene raccomandato per
incarichi nell’attuale governo. Simeon smentisce, Viganò rimane vittima
dell’antico detto «promoveatur ut amoveatur» ed è diplomatico a Washington ma la
storia è solo all'inizio