2012-02-27

CONTRO LA VIVISEZIONE


 Molti affermano "la vivisezione non esiste più". O non sanno di cosa parlano, o sono in malafede. "Vivisezione" non è solo il sezionare la rana viva, o gli atroci esperimenti del passato in cui i cani venivano legati con cinghie a una tavola e poi sezionati. Quello non esiste quasi più, è vero (tranne che per alcune sfortunate rane nei laboratori didattici). Oggi la vivisezione è ben altro. Molto peggio. E' chiamata "sperimentazione animale" o addirittura "ricerca medica", ma rimane, secondo la definIzione del dizionario, "vivisezione". E', per estensione "qualunque tipo di
sperimentazione effettuata su animali di laboratorio che induca alterazioni a livello anatomico o funzionale, come l'esposizione a radiazioni, l'inoculazione di sostanze chimiche, di gas, ecc." [Dizionario De Mauro, ed. Paravia]. E' questo che milioni di animali ogni anno, nel mondo, subiscono nei laboratori: avvelenamenti con sostanze chimiche, farmaci e cosmetici compresi, induzione di malattie artificiali di ogni genere (cancro, sclerosi multipla, varie imitazione dell'AIDS, malattie cardiovascolari, ecc.), esperimenti al cervello, esperimenti sul dolore, e molto altro. I signori vivisettori vogliono essere chiamati "ricercatori" o "scienziati". Altrimenti si offendono. Ma i loro camici bianchi non sono diversi da quelli dei macellai. E se ci sono meno macchie rosse è solo perché la sofferenza da loro inflitta agli animali di ogni specie non sempre richiede di versare sangue. Qui sono disponibili alcune foto che testimoniano la sofferenza degli animali, ma la sofferenza più atroce è quella che non si vede, è quella del cane con la sclerosi multipla, del topino bianco col cancro, della coniglia tenuta prigioniera in un gabbia minuscola e imbottita di sostanze chimiche fino a generare figli deformi. Le foto non sono recentissime, perché è sempre più difficile accedere ai laboratori: i vivisettori sono "orgogliosi" del proprio lavoro, ma solo se non si fa vedere in cosa consiste.

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Cosa succede se fallisce l'EURO
















Il fallimento dell'euro e dell'Eurozona non è più uno scenario impossibile. Ora sta diventando una possibilità concreta . Nonostante le rassicurazioni incassate da Francia e Germania a Bruxelles, i mercati non sono più disposti ad aspettare. per questo le grandi banche del mondo si stanno preparando al piano B. Il New York Times, ha scritto che molti istituti di credito (tra cui Merrill Lynche e Barclays Capital) hanno pubblicato decine di rapporti in cui esaminano la possibilità di un crollo dell'Eurozona. Stanno preparando dei piani di emergenza.


Reazioni - "Ma le banche dei grandi paesi dell'eurozona che solo recentemente sono stati infettati dalla crisi non sembrano essere così agitate. Banche in Francia e Italia in particolare, - si legge ancora nell'editoriale de
The New York Times- non starebbero creando piani di backup per la semplice ragione che essi hanno concluso che è impossibile che l'euro possa crollare. Sebbene banche come Bnp Paribas, Sociètè Gènèrale, UniCredit ed altre hanno recentemente scaricato decine di miliardi di euro di debito sovrano europeo, il pensiero è che ci sono pochi motivi per fare di più".  "Le authority degli Stati Uniti -continua ancora l'editoriale- stanno incalzando le banche americane come Citigroup ed altri istituti, a ridurre l'esposizione verso l'eurozona. In Asia, le autorità di Hong Kong hanno intensificato il monitoraggio dell'esposizione delle banche straniere e nazionali alla luce della crisi europea".

Ripercussioni - Inevitabile chiedersi quali ripercussioni avrà sulle nostre tasche, sui nostri conti, l'ipotesi peggiore: il fallimento dell'euro. La prima, immediata, conseguenza è la perdita dei valore dei nostri beni mobili e immobili. Gli stipendi, il valore delle case, i conti correnti subirebbero un'inevitabile contraccolpa dal passaggio dall'euro alla lira.Altrettanto irrimediabile sarà lo spostamento di ingenti somme di capitali dall'Italia verso Paesi considerati "sicuri" come la Svizzera con una perdita ulteriore per l'economia. Il sistema bancario sarebbe definitivamente messo in crisi da uno scenario simile: gli istituti di credito sarebbero costretti ad ottemperare agli impregni internazionale con la moneta forte, mentre sarebbero alimentate da quella debole. Unici che potrebbero trarre vantaggio sono le imprese esportatrici che avrebbero quindi degli incassi in euro mentre pargherebbero tasse, affitti, salari degli operai in lire. 

I costi -  L'eurocrac costerebbe 10mila euro a italiano  L'uscita traumatica dall'euro di alcuni Paesi, quelli il cui debito sovrano è sottoposto al tito incrociato della speculazione è ben più che un'ipotesi fantapolitica. La rottura dell'attuale equilibrio monetario ha dei costi che si spalmerebbero un po su tutti. E non soltanto nei cosiddetti Paesi Piigs, l'acronimo con cui gli analisti hanno accomunato Portogallo, Irlanda, Italia Grecia e Spagna, giocando sull'assonanza con la parola “Pigs”, vale a dire maiali. Uun gruppo di analisti della sede londinese di Ubs ha quantificato i costi. Su ogni italiano peserebbe una cambiale di circa 10mila euro l'anno per almeno un decennio. Se invece dovesse saltare tutto il sistema della moneta unica i costi scenderebbero.



La nuova lira La nuova lira partirebbe svalutata del 50% rispetto al cambio attuale. Così per fare un euro ci vorrebbero circa 3.000 lire. Poco meno per comprare un dollaro. Gli effetti del deprezzamento delle nostre merci che renderebbero convenientissimo il Made in Italy su tutti principali mercati europei verrebbero però azzerati da dazi doganali di almeno il 50% che i i Paesi del Nord Europa imporrebbero subito. In compenso ci troveremmo a pagare carissimo il petrolio che importiamo (tutto) e questo scatenerebbe un'inflazione a due cifre. Sicuramente superiore al 10%. Diventerebbe insostenibile per le nostre finanze anche il perso dei titoli del debito pubblico emessi in euro, destinati a rimanere in circolazione. Senza contare gli interessi, pure questi non inferiori al 10%. Gli analisti di Ubs non escludono l'insorgere di violenti disordini sociali che potrebbero portare addirittura a alla guerra civile.


Liberarsi delle zanzare tigre











Tre semplici, elementari, scontate mosse, ma che sono sufficienti per dimezzare il numero delle zanzare tigre (Aedes albopictus): accertarsi che non ci sia acqua stagnante nei dintorni, usare in modo mirato gli insetticidi per eliminare le larve e gli adulti, ed evitare di accumulare spazzatura.

A dirlo è una ricerca portata avanti dall’Università Autonoma di Barcellona (Uab), appena pubblicata su Transactions of the Royal Society of Tropical Medicine and Hygiene.

Lo studio è stato condotto a Sant Cugat del Vallès e a Rubì, due località non distanti da Barcellona, ed è cominciato nel febbraio del 2008. I ricercatori hanno informato la popolazione, ispezionato 3.000 abitazioni e intervistato circa 700 persone. Inoltre hanno monitorato il numero di uova depositate in trappole costruite e posizionate ad hoc (piccoli pezzi di legno posti in un bicchiere di acqua), che mimano le condizioni ideali per la proliferazione delle zanzare

Dopo aver applicato gli insetticidi, tolto parte della vegetazione in parchi e giardini, eliminato i cumuli si spazzatura dalle vie, e drenato l’acqua stagnante, i ricercatori hanno stimato il numero di uova e lo hanno confrontato con quello precedente agli interventi. I risultati indicano una riduzione di oltre il 50 per cento nelle aree trattate rispetto alle aree controllo. 

Le zanzare tigre, originarie dell’Asia, sono arrivate in Europa solo di recente. Hanno cominciato a colonizzare la  Spagna nel 2004, per poi raggiungere altre parti del Vecchio Continente. Oltre al fastidio delle punture, il vero problema è che questo insetto è uno dei pochi arrivati alle nostre latitudini in grado di trasmettere malattie tropicali come la febbre gialla, dengue e Chikungunya, che nell’estate del 2007 ha colpito circa 200 persone in Italia. 

Avremo un futuro di solo donne ?

Gli uomini sono sull’orlo dell’estinzione? Nonostante tutto, no. Sebbene da anni il cromosoma Y (quello che porta i geni che determinano il sesso maschile) sia oggetto di scherno e di previsioni catastrofiche, non sembra destinato a una scomparsa precoce. Di vero c’è che è molto più piccolo di altri cromosomi e che contiene molti meno geni dell’X (cromosma femminile). Nel corso del tempo infatti, in circa trecento milioni di anni, l’Y ha perso la maggior parte dei suoi geni e adesso ne presenta appena 45 (l’X ne ha 1.400). Recentemente l’allarme è stato lanciato da un genetista britannico, Bryan Sykes della Oxford University, nel suo libro “Adam's Curse: A Future Without Men” (Il corso di Adamo: un futuro senza uomini). Oggi a
riportare in auge l’argomento “estinzione maschile” è una donna, la ricercatrice Jennifer Gravers dell’Australian National University, che prevede per il cromosoma Y “soltanto” altri cinque milioni di anni di vita. Gravers, nel corso di una lezione tenuta al Royal College of Surgeon in Irlanda e chiamata “Declino e caduta del cromosoma Y e del futuro degli uomini”, ha dichiarato che “il cromosoma Y sta morendo, ma il vero problema è capire cosa succederà dopo”. Esso, infatti, contiene un gene, lo SRY, che permette lo sviluppo dei testicoli e la produzione degli ormoni sessuali maschili. La tesi dell’estinzione si basa in gran parte sulla perdita di geni nel corso del tempo e sul fatto che l’Y è un cromosoma solitario, che non ha in altre parole una controparte con cui ricombinarsi durante la formazione delle cellule germinali (spermatozoi e ovociti). La ricombinazione è un processo durante il quale cromosomi omologhi (cromosomi morfologicamente uguali) si incrociano e si scambiano delle parti di Dna. “Questo meccanismo ha un effetto terapeutico perché consente ai geni danneggiati di essere riparati dai loro compagni sani sul cromosoma non danneggiato prima di intraprendere una via diversa come spermatozoi o uova. I cromosomi che non possono avvantaggiarsi di questo passaggio, diventano sempre più malati, e le mutazioni, che per la maggior parte sono inevitabilmente dannose, silenziano un gene dopo l’altro”, ha scritto nel suo saggio Bryan Sykes. Secondo Sykes il cromosoma Y è colpito dalle mutazioni più di qualunque altro cromosoma perché deve trascorrere tutta la propria vita all’interno delle cellule degli uomini, nei loro testicoli che attraverso la divisione cellulare producono continuamente nuovi spermatozoi. Durante ogni divisione c’è il rischio di una mutazione, un errore casuale e quindi maggiore è il numero di divisioni e più alta è la probabilità di mutazioni. A portare un po’ di speranza a questo povero e solitario grumo di Dna è stato uno studio del 2003 condotto da David Page e dal suo gruppo di ricercatori del Whitehead Institute for Biomedical Research di Cambridge (Massachusetts, Usa). La ricerca ha mostrato che il cromosoma Y è in grado di ricombinarsi con se stesso e che molte regioni, soprattutto quelle essenziali per la fertilità maschile, sono ripetute numerose volte e contengono sequenze di Dna identiche in ogni direzione (come un palindromo). Questo arrangiamento permette ai geni di appaiarsi correttamente e di ripararsi a vicenda in un processo chiamato conversione genica. “L’Y ha un meccanismo di autocorrezione, una potente forza selettiva per garantire la sua conservazione”, ha commentato Scott Hawley dello Stower Institute for Medical Research di Kansas City. Inoltre molti dei caratteri che differenziano maschi e femmine sono portati anche da altri cromosomi; ci sono anche molte specie di roditori che pur non possedendo né cromosoma Y né gene SRY continuano a riprodursi senza problemi e a generare sia maschi sia femmine. Inoltre esistono anche molti candidati a sostituire il gene SRY. Questa possibilità di sostituzione apre però secondo la ricercatrice australiana una possibilità fantascientifica: il fatto che si sviluppino diversi meccanismi di determinazione del sesso in differenti popolazioni umane. “Queste non potranno più riprodursi tra loro, portando alla formazione di specie diverse di uomini”, ha affermato la Gravers.

2012-02-25

L'indonesia era abitata già un milione di anni fa










Nuovi reperti dall’isola di Flores, in Indonesia, collocano l’arrivo degli ominidi sul posto almeno 200 mila anni prima di quanto precedentemente stimato. Questo significa che gli antenati del cosiddetto Hobbit (Homo floresiensis) (Hobbit, una specie a parte; Microcefalo a chi?) risiedevano a Flores già un milione di anni fa e non 800 mila, come indicavano le prove accumulate dagli archeologi fino ad oggi. Queste le conclusioni di uno studio condotto da Adam Brumm della University of Wollongong (Australia) e pubblicato sulla rivista Nature. La ricerca è frutto di una collaborazione tra l'università australiana, la Roskilde University (Danimarca), il Museo Naturalis (Olanda) e l’Istituto di rilevamento geologico indonesiano.

I manufatti, 47 frammenti di pietra tra cui due di natura vulcanica finemente lavorati, sono stati rinvenuti nel sito archeologico di Wolo Sege, nella depressione di Soa, a 500 metri dal sito di Mata Menge. Proprio dove erano stati ritrovati i reperti finora ritenuti i più antichi dell’isola (Homo "navigans" in Australia). La datazione dei manufatti di Wolo Sege è stata realizzata alla Roskilde University attraverso il rilevamento di isotopi del gas nobile Argon presente in campioni di polvere lavica prelevati da uno strato di terra immediatamente superiore a quello in cui sono stati trovati gli oggetti.

Oltre a spostare indietro nel tempo la colonizzazione dell'isola, le osservazioni modificano notevolmente le nostre conoscenze su questo luogo. Prima della scoperta, infatti, la coincidenza temporale dei manufatti umani con la scomparsa di alcune specie animali (tra cui le tartarughe giganti e il mastodonte) aveva fatto supporre che l’arrivo di nuovi predatori, gli ominidi, fosse la causa di un generale cambiamento della fauna isolana. Adesso, i risultati del gruppo di Brumm confutano questa ipotesi, suggerendo che l’estinzione di alcune specie possa essere avvenuta a causa di un’eruzione vulcanica (di cui si hanno informazioni certe provenienti da un altro sito adiacente a Wolo Sege), e che la generale "trasformazione" faunistica possa essere riconducibile ad un mix di cambiamenti climatici, attività vulcaniche e altri eventi naturali.

Gli autori dello studio ipotizzano, inoltre, che la colonizzazione dell'isola possa essere avvenuta ancor prima di un milione di anni fa. A suggerirlo, questa volta, non sono i reperti archeologici. Brumm e colleghi hanno preso in considerazione la primitività dei tratti morfologici dello scheletro di Homo floresiensis: la ridotta statura, le dimensioni del cranio e la conformazione delle ossa tarsali suggeriscono che i progenitori ancestrali dell’Hobbit si siano separati dagli altri ominidi ben oltre il milione di anni fa. Per ora questa resta un'ipotesi ma, secondo i ricercatori, si tratta solo trovare il sito giusto dove scavare.

Per ingannare il cancro ci sono le nanoparticelle 007


Sono grandi poco più di qualche milionesimo di millimetro, all’incirca come un virus, e si mimetizzano nel sangue per aggirare il sistema immunitario: sono le nanoparticelle create dagli scienziati dell’Università della California a San Diego, piccole molecole sintetiche che potrebbero rappresentare un’innovazione nel trattamento dei tumori. La ricerca americana è pubblicata sulla versione online di Pnas.
Quello pensato dagli studiosi californiani è un vero e proprio travestimento: alcune nanoparticelle biodegradabili, alle quali vengono legate piccole molecole di farmaci antitumorali, vengono rivestite con membrane cellulari naturali, prelevate dai globuli rossi. In questo modo i ricercatori riescono a camuffare i corpuscoli in modo da evitare la reazione del sistema immunitario nei confronti di sostanze ritenute estranee all’organismo. Così i medicinali possono raggiungere senza problemi l’area colpita dalle cellule maligne.
“È la prima volta che membrane cellulari naturali vengono legate a nanoparticelle sintetiche per il trasporto di medicinali nell’organismo”, ha detto Linagfang Zhang, ingegnere alla Jacob School of Engineering dell’Università di San Diego, a capo del gruppo di ricerca. “Questo metodo – ha aggiunto Zhang - presenta un rischio molto minore di risposta immunitaria aggressiva”.
I corpuscoli sono infatti già usati con successo in trattamenti clinici del cancro, ma di solito sono avvolti in materiali sintetici (come il glicole polietilenico): si crea artificialmente una patina protettiva che dura qualche ora e che dà il tempo al farmaco di raggiungere i tessuti malati. Con il nuovo metodo di Zhang e del suo team, invece, i medicinali riescono a circolare nell’organismo malato per quasi due giorni senza essere aggrediti dal sistema immunitario.
I ricercatori dell’Università della California non sono gli unici ad aver visto nelle nanoparticelle dei possibili agenti in incognito. In una ricerca pubblicata il 19 giugno su Nature Materials, alcuni scienziati del MIT hanno dimostrato che è possibile creare in laboratorio dei corpuscoli che comunichino tra loro all’interno dell’organismo: questa abilità migliorerebbe la loro efficienza nel trasportare i medicinali.
I ricercatori hanno studiato un nuovo sistema di veicolazione dei farmaci che si basa su due fasi successive. La prima consiste nella “ricognizione”: parte dei micro corpuscoli arriva al tumore attraverso i vasi sanguigni danneggiati intorno ai tessuti malati. Una volta giunte nell’area colpita, le nanoparticelle riscaldano il tessuto circostante, simulando una lesione e innescando così un processo di coagulazione del sangue. Le altre nanoparticelle – in numero molto maggiore – sono legate a una proteina (fibrina) che le dirige verso il coagulo: queste sono le vere trasportatrici del farmaco, che così può raggiungere il tumore con una efficacia 40 volte maggiore rispetto ai metodi attualmente usati. Un’azione congiunta che ricorda quella di una squadra ben addestrata.

Entrambe le ricerche hanno bisogno di ulteriori test. Ma questi due nuovi metodi potrebbero rappresentare un modo di migliorare la qualità della vita dei malati di cancro, velocizzando e ottimizzando le loro cure.

Il bosone di HIGGS , la cosiddetta particella di DIO


Sui blog di matematici come Peter Woit della Columbia University, o di fisici come Slashdot girano i commenti a quella che sembra essere stata un’accidentale fuga di notizie. Qualcuno che lavora all’esperimento Atlas dell’Lhc, l’acceleratore più grande del mondo, si è lasciato "scappare" un documento interno con una nota. Si parla del bosone di Higgs, l’unica particella prevista dal Modello Standard della fisica teorica non ancora osservata. Così partono i rumors e la notizia che al Cern possa essere stata trovata l’agognata particella fa il giro del mondo e solleva un polverone mediatico. 
In realtà, in questa storia, “polverone” è l’unica parola sensata (almeno per ora). “I risultati di cui si parla non sono stati ancora approvati dalla collaborazione Atlas”, spiega a Galileo un esperto di fisica delle particelle. Il motivo è che i dati non sono stati ancora studiati e compresi. Di prassi infatti, tra quando si raccolgono i dati a quando si traggono le conclusioni e viene annunciato un risultato, bisogna passare per la fase di comprensione e validazione. “L'informazione circolata parla di alcune collisioni che hanno una caratteristica interessante: l'essere avvenute a 115 GeV”, continua il ricercatore. Il motivo per cui è interessante è che tempo fa l’acceleratore di particelle Lep (Large Electron Positron), ora rimpiazzato da Lhc, aveva notato delle deboli collisioni proprio intorno a 115 GeV. Ma i tempi stringevano e non si poteva rimandare il progetto del nuovo acceleratore. 
Ora, questa coincidenza fa ben sperare. In cosa esattamente? “Il discorso è simile a quello fatto per i dati emersi poche settimane fa da Collider Detector : “Per il momento da questi dati potrebbe uscire di tutto, anche niente”. Non si conosce neanche la probabilità che si tratti di un rumore di fondo. Per questo non è possibile prendere alcuna posizione. “In ogni caso, altre caratteristiche non sembrano essere quelle attese per il bosone di Higgs”, conclude il ricercatore.

Come la AGCOM può cancellare un sito


Via libera dell'Agcom alla bozza della delibera (668/2010) sulla tutela del diritto d'autore. Nonostante alcuni ammorbidimenti, il testo minaccia ancora di stringere il bavaglio della censura su chi condivide contenuti audiovisivi sulla rete. Il nuovo articolato rimarrà comunque congelato in attesa di una consultazione pubblica, come previsto dallo schema operativo approvato durante la riunione del 6 luglio. L'Authority guidata da Corrado Calabrò ha scelto, infatti, di rimandare ad ottobre la decisione definitiva sul provvedimento che impone la rimozione dei file multimediali sospettati di violare il copyright.


Tuttavia, ci sono ancora grandi timori riguardo agli strumenti di censura previsti dall'Agcom, accusati dai sostenitori della Notte della Rete di danneggiare anche molti dei dati sensibili che circolano su Internet. Al centro del dibattito ci sono proprio le tecniche che verrebbero utilizzate per rimuovere i contenuti 'pirata'. Ma in cosa consistono, di preciso, queste procedure di cancellazione che rischiano di fare terra bruciata sul Web? Lo abbiamo chiesto a Gianbattista Frontera, vicepresidente di Assoprovider, l'associazione che raccoglie i fornitori indipendenti di servizi per la connettività alla rete.

Frontera, cosa prevede la procedura Agcom per la rimozione del materiale lesivo del copyright?

“La parte cruciale del procedimento di censura si svolge entro le 24-48 ore: chi detiene i diritti d'autore segnala la presenza di un file sospetto al provider, che è considerato responsabile. Se il sito incriminato è ospite di un server italiano, il suo gestore è allora tenuto a rimuoverlo nel caso in cui riscontri una effettiva violazione del copyright. L'Agcom entra in scena solo se il contenuto non viene eliminato, avviando così una procedura di verifica che si conclude entro 10-20 giorni, prorogabili di altri 15. Questo significa che dopo un mese, in mancanza di un contraddittorio da parte del proprietario del sito, l'Authority può imporre le ragioni di chi detiene i diritti d'autore. I contenuti vengono rimossi dal server e, nella peggiore delle ipotesi, il sito rischia di essere completamente cancellato. Una procedura fulminea che lascia poco tempo per adire a vie legali. È assurdo che un ente amministrativo come l'Agcom preceda l'autorità giudiziaria e limiti il diritto dei cittadini a sottoporsi a un giusto processo”.
Cosa succederebbe, invece, se si trattasse di un sito ospitato in un server straniero?
“In questo caso, l'Agcom imporrebbe al provider di adottare delle tecnologie speciali per verificare l'infrazione del copyright e bloccare i contenuti sospetti. Le soluzioni sono due, entrambe molto drastiche. La prima prevede l'inibizione dell'indirizzo IP assegnato al server che ospita il sito indagato, in modo da renderlo irraggiungibile dall'Italia. Ma un server in genere ospita un numero imprecisato di altri siti che non hanno nulla a che vedere con la violazione di quel diritto d'autore. Oscurando tutto il server, si danneggiano, di fatto, migliaia di utenti con il solo scopo di censurarne uno solo. È una grave lesione del diritto all'informazione, la cui inalienabilità è sancita, tra l'altro, dall'articolo 21 della Costituzione”.

Ha accennato a una seconda tecnologia. Di che cosa si tratta?

“C'è un altro modo con cui un provider può rimuovere un contenuto da Internet. Si chiama Deep Packet Inspection (Dpi) ed è una tecnica molto invasiva. Permette di cancellare un file attraverso una procedura di localizzazione dei pacchetti d'informazione usati per trasmettere i dati. In pratica funziona così: quando un file deve essere trasmesso attraverso la rete, questo viene frammentato in tanti piccoli pezzi e mescolato in modo casuale ad altri dati. Quando questo pacchetto raggiunge la sua destinazione, i dati vengono scorporati e riassemblati nella loro forma originale. Il Dpi interviene proprio su questi aggregati per identificare i dati bersaglio e cancellarli. Ma nell'ispezionare i pacchetti 'pirata' potrebbero venir svelati anche i contenuti di altri file, magari soggetti alla tutela della privacy”.
A cosa si riferisce in particolare?
“Intendo foto, documenti ed email personali di persone che non c'entrano assolutamente nulla e che per caso finiscono sotto il mirino del Dpi. Si parla di frammenti di vita privata, che potrebbero fornire informazioni personali sui dati sanitari, le preferenze sessuali, religiose o politiche. Tutti dati sensibili tutelati dal Garante per la privacy. Informazioni del genere possono essere gestite da terzi solo dietro il previo consenso dell'interessato, e vengono addirittura conservate in server privati a cui è impossibile accedere dalle reti esterne, come in alcuni ospedali. Costringere un provider a setacciare tra questi dati equivale a calpestare i diritti civili di chi utilizza la rete. Detto ciò, il sistema Dpi lede, per ultimo, anche il diritto di libera impresa”.

E perché?

"La tecnologia Dpi è molto costosa, si parla addirittura di migliaia di euro. Acquistare uno strumento del genere comporterebbe delle spese che i piccoli gestori di connettività non possono permettersi di affrontare. Ma se l'Agcom richiedesse a tutti di dotarsene, i provider più piccoli verrebbero subito spazzati via dal mercato. Un vero disastro, soprattutto perché si parla del 70% delle aziende che forniscono questo genere di servizi. Insomma, la strategia dell'Authority fallisce su tutti i fronti, e non lo dico solo in veste di rappresentante di categoria ma, soprattutto, in quella di cittadino italiano”.

La delibera Agcom è stata appena approvata: cosa succederà alla rete italiana?


“Per valutare la reale portata di questa decisione dovremo prima attendere di avere tra le mani l'articolato definitivo. Una cosa è certa, mai prima d'ora ha avuto luogo un simile tentativo di imbavagliare la rete. Neppure le misure restrittive sancite dal Patriot Act, firmato da Bush dopo l'11 Settembre, avevano osato tanto. Se l'Agcom proseguisse lungo questa strada, tutelerebbe solo gli interessi delle grandi major, e non quelli dei piccoli autori, senza più tener conto della libera condivisione dei dati da parte degli utenti. Nella peggiore delle ipotesi, avremo una rete blindata e pattugliata da un 'Grande Fratello' che controlla le nostre vite. Siamo giunti a un punto di non ritorno, come avrebbe voluto il dottor Stranamore. Esagero, ma mi piace farlo proprio citando due capolavori che hanno segnato la storia del cinema”.

Il parkinson sarà sconfitto con le staminali?


Mentre in Europa le cellule staminali sono al centro di un dibattito soprattutto politico , negli Stati Uniti la ricerca va avanti con successo. Gli ultimi, promettenti risultati arrivano da uno studio condotto da un gruppo di ricerca coordinato da Lorenz Studer del Memorial Sloan-Kettering Cancer Centre di New York, che ha trovato un nuovo, efficace metodo per trasformare cellule staminali embrionali umane in neuroni dopaminergici, cioè produttori del neurotrasmettitore dopamina. Le cellule nervose così ottenute sono state utilizzate per curare topi, ratti e scimmie affette da Parkinson con ottimi risultati.
Il Parkinson è una malattia neurodegenerativa che causa la morte dei neuroni produttori di dopamina localizzati nella sostanza nera, un’area cerebrale che controlla il movimento. I sintomi sono tremori, rigidità muscolare, lentezza di movimento ma anche stanchezza, dolore e depressione. Le terapie umane per la cura della malattia consistono nella somministrazione di farmaci che promuovono il rilascio di dopamina o nella stimolazione delle aree cerebrali interessate dalla perdita dei neuroni dopaminergici. Ma nessuna sperimentazione con cellule staminali è stata mai avviata. In effetti, nonostante i ricercatori già sapessero come trasformare cellule staminali pluripotenti in neuroni dopaminergici, lo loro limitata vitalità, la scarsa funzionalità e la tendenza a proliferare in modo incontrollato dando origine a tumori ne hanno sempre impedito la sperimentazione in trial clinici su pazienti umani.
Finalmente arriva ora un risultato che fa sperare. Come spiegato nello studio pubblicato su Nature, esponendo per 25 giorni cellule embrionali umane all’azione di una cascata di segnali proteici, i ricercatori sono riusciti a ottenere neuroni dopaminergici vitali per diversi mesi. La funzionalità di queste cellule nervose è stata quindi testata in tre specie animali affette da Parkinson: ratti, topi e scimmie. I risultati sono stati sorprendenti. In tutti gli animali i neuroni dopaminergici iniettati hanno ristabilito le connessioni nervose interrotte a causa della malattia restaurando in parte le capacità di movimento. Il tutto, cosa più importante, senza causare alcuna crescita tumorale. I risultati sulle scimmie sono ancora più preziosi di quelli ottenuti con i roditori, dal momento che le prime hanno bisogno di un maggior numero di connessioni per ristabilire le funzionalità motorie perse.
La scoperta, secondo i ricercatori, dimostra che i fallimenti passati non erano legati alla vulnerabilità delle cellule nervose ottenute da staminali, ma piuttosto a un’ incompleta differenziazione cellulare. “Sino a oggi non avevamo mai compreso in pieno i segnali necessari per indurre una cellula staminale a differenziarsi completamente nel giusto tipo cellulare – confessa Lorenz Studer al Guardian – ora sappiamo come fare, un prezioso passo in avanti per il futuro utilizzo di queste cellule a scopi terapeutici”.
“Le cellule create in passato producevano un po’ di dopamina ma non erano esattamente il giusto tipo cellulare di cui avevamo bisogno - continua Studer -  ecco perché il loro impiego ha portato a scarsi progressi negli studi su modelli animali”. Secondo Kieran Breen, direttore di ricerca del Parkinson's UK: “Le cellule staminali sono una promessa per la cura del Parkinson. Tuttavia, prima di poterle utilizzare abbiamo bisogno di sapere che, una volta introdotte nel cervello, lavorino bene”. Lo studio dell’equipe di Studer sembra fornire qualche rassicurazione a riguardo. Anche la Breen lo riconosce: “Nello studio, i ricercatori hanno usato una procedura diversa per indurre la differenziazione delle cellule staminali in neuroni e questa volta le cellule nervose hanno lavorato bene, non hanno generato tumori e hanno eliminato alcuni sintomi del Parkinson nelle scimmie malate”. “Le terapie basate sulle cellule staminali possono ancora essere lontane – conclude la ricercatrice – ma questo studio dimostra per la prima volta che è possibile ottenere neuroni funzionanti a partire da cellule staminali umane”.
“I risultati dell’equipe di Studer pongono una sfida all’Europa riguardo alla legislazione futura e alla competitività in questo campo”, ha affermato Elena Cattaneo riferendosi ai limiti imposti alla ricerca sulle cellule embrionali umane, e alla recente sentenza della Corte di Giustizia europea che ha vietato la brevettabilità delle invenzioni da esse derivanti. Cattaneo è direttore del Centro di Ricerca sulle Cellule Staminali dell’Università di Milano e anche coordinatrice del progetto Eurostemcell, che ha cofinanziato lo studio apparso su Nature.

Siamo tutti uomini di Neanderthal








C’è un po’ di Neanderthal in ognuno di noi, almeno in chi ha discendenza europea e asiatica: per l’“esattezza”, tra l’1 e il 4 per cento del nostro Dna sarebbe frutto dell’incrocio tra le popolazioni di Homo sapiens e quelle di Homo neanderthaliensis, che tra 30.000 e 130.000 anni fa vivevano insieme in Europa e in Asia. A rivelarlo con due studi ad accesso libero su Science - cui la rivista dedica una sezione speciale - è il genetista Svante Pääbo del Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, che ha ottenuto la prima sequenza del Dna nucleare di tre donne Neanderthal
La pubblicazione della ricerca arriva a poco più di un anno dell’annuncio (ufficioso) dei primi risultati (Neanderthal, un ritratto in Dna). Sebbene la sequenza non sia l’intero genoma (ma il 60 per cento), si tratta comunque di un traguardo importantissimo, perché il Dna antico contenuto nei nuclei delle cellule si degrada facilmente e viene altrettanto facilmente contaminato. Per questo Pääbo si era finora concentrato soprattutto sul Dna mitocondriale (Neanderthal, decifrata una nuova sequenza).

Il Dna è stato ottenuto da campioni grandi come una caramella (circa 300 milligrammi in tutto) prelevati da tre ossa ritrovate in una grotta in Croazia e datate tra 38.300 e 44.400 anni fa. Il materiale genetico è stato poi analizzato grazie a una nuova tecnica specifica per lo studio del Dna degradato, messa a punto da Hernán Burbano, un altro genetista del centro di ricerca tedesco. La sequenze ottenute  - circa due milioni di coppie di basi (le lettere che compongono il codice) - sono state poi confrontate con quelle di cinque esseri umani moderni provenienti da diverse parti del mondo: un francese, un cinese Han, un abitante della Papua Nuova Guinea (Micronesia), uno Yoruba dell'Africa Occidentale e un nomade San del Sudafrica.

Ebbene, i geni “neanderthaliani” risultano presenti nell’europeo, nell’asiatico e nell’abitante della Papua Nuova Guinea, mentre non ve n’è traccia nei due africani. La comparazione ha anche permesso di stabilire che l’incrocio (interbreding, in gergo) tra sapiens e Neanderthal è avvenuto 45.000 e 80.000 anni fa. Questo significa che l’ultima popolazione ancestrale comune a tutta l'umanità ha sicuramente più di 30.000 anni. Si contraddicono così i risultati di altre recenti ricerche (Due specie ben distinte), mentre si confermano le prime ipotesi dello stesso Pääbo (Neanderthal superstar).

I risultati sono preliminari. Se è vero, infatti, che la tecnica di Burbano ha permesso di ridurre le contaminazioni con il Dna estraneo ai Neanderthal allo 0,6 per cento (contro il 43% delle precedenti analisi), va anche detto che le sequenze sono state “lette” in media solo 1,3 volte (per confronto si pensi che il genoma di un uomo della Groenlandia, di appena 4.000 anni fa, è stato letto ben 20 volte). Va però sottolineato che quanto trovato conferma i risultati di un altro studio presentato circa un mese fa al meeting annuale dell’American Association of Physical Anthropologists di Albuquerque, in New Mexico. I ricercatori dell’Università del New Mexico hanno infatti esaminato il genoma di 2.000 esseri umani moderni e suggeriscono che H. sapiens si sia incrociato con i Neanderthal almeno due volte: 60.000 e 45.000 anni fa.

I nuovi studi su Science rivelano però dell’altro sulla nostra specie. Il confronto tra i genomi ha permesso di identificare quei pezzettini di codice genetico che sembrano essere propri esclusivamente degli esseri umani. Si tratterebbe di geni legati al metabolismo, ad alcune capacità cognitive e allo sviluppo dello scheletro. 

Il colore della felicità



Il buon umore si alza presto al mattino e va a letto tardi la sera. Ma durante il giorno è piuttosto sfuggente, lasciando il posto ai cattivi pensieri. È quanto hanno scoperto due ricercatori della Cornell University, in Usa, analizzando i cinguettii postati su Twitter da milioni di persone sparse in tutto il mondo. Dall’analisi dei tweets, come riporta lo studio pubblicato su Science, è emerso che la felicità non ha colore, nazionalità o religione. Il buon umore, piuttosto, dipende dal sonno e dalla lunghezza delle giornate.

Se le parole sono lo specchio delle emozioni, un social network come Twitter può diventare uno strumento di indagine scientifica straordinariamente importante. Partendo da questo presupposto i ricercatori statunitensi in due anni hanno raccolto ben 509 milioni di post lasciati da 2,4 milioni di persone di 84 paesi differenti. Utilizzando un software di analisi del testo (Linguistic Inquiry and Word Count), gli scienziati hanno quindi pesato l’umore delle parole, distinguendo quelle che esprimevano sentimenti positivi (piacere, entusiasmo, vivacità, dinamismo) da quelle portavoce di negatività (paura, distrazione, rabbia, disgusto). In questo modo sono riusciti a disegnare una mappa temporale degli stati d’animo.

Si è così scoperto che, in ogni paese, le persone si svegliano felici per poi, nel corso della giornata, diventare man mano più cupe. Il buon umore ritorna verso mezzanotte e il ciclo ricomincia. A una prima analisi, questo andamento può far pensare a una relazione tra buon umore e stress: siamo più felici di mattina e sera perché non lavoriamo. Ma i ricercatori hanno riscontrato lo stesso pattern nei weekend, segno che la felicità è una questione di sonno e ritmi circadiani. In effetti, a conferma di questa ipotesi, i ricercatori hanno visto che nei giorni festivi il picco di buon umore mattutino arriva in media due ore più tardi, perché le persone dormono di più se non devono lavorare.

Lo studio non è il primo a indagare i fattori che influenzano l’umore, ma, rispetto ai precedenti, analizza un campione molto più ampio e culturalmente eterogeneo. Inoltre, grazie ai social network, ha un approccio più genuino: gli sperimentatori non domandano alle persone come si sentono, ma si limitano a registrare ciò che pensano, dicono e fanno.

2012-02-24

La sigaretta è un killer anche da spenta

Non è solo un problema di cattivo odore, ma un vero rischio per la salute. Il residuo di nicotina che si deposita sui vestiti, sui divani e l'arredamento di una stanza o di una macchina, reagisce, infatti, con alcune sostanze inquinanti, producendone altre potenzialmente cancerogene. A lanciare l'allarme sulle pagine di Pnas sono i ricercatori del Lawerence Berkeley National Laboratory, guidati da Hugo Destaillats.

“Il fumo di sigaretta rilascia nicotina sotto forma di vapore che viene rapidamente assorbite dalle superfici interne di un locale, come le pareti, il pavimento, i tappeti o il mobilio, e può restarci per settimane, talvolta mesi”, ha spiegato Destaillats. Per capire se questi residui rappresentassero o meno un pericolo per la salute, i ricercatori statunitensi hanno replicato le condizioni di una stanza e di una cabina auto in cui si fuma abitualmente. Lo studio ha mostrato che la nicotina presente sulla tappezzeria o sulle pareti reagisce con l'acido nitroso presente nell'atmosfera formando le nistrosamine, agenti fortemente cancerogeni. Alla fine degli esperimenti la presenza di queste sostanza sulle superfici esposte al fumo di sigaretta era dieci volte più alta rispetto a quella presente prima dei test.

Secondo Destaillats, poiché l' esposizione avviene soprattutto attraverso il contatto della pelle con i tappeti o i vestiti, quelli che rischiano di più sono i bambini piccoli. I genitori più attenti fumano fuori o aprono le finestre per arieggiare le stanze, ma questo può non bastare: “Fumare all'esterno è meglio ma i residui di nicotina sono assorbiti anche da pelle e vestiti e seguono il fumatore quando entra in una stanza dove si trova acido nistroso nell'aria”, ha spiegato il ricercatore. 




Questo tipo di assimilazione di fumo di sigaretta - chiamato fumo di terza mano – rappresenta, secondo gli autori dello studio, una minaccia finora sottovalutata a causa della rapidità di assorbimento della sostanza da parte delle diverse superfici e della sua persistenza. Un modo per combatterlo è creare ambienti pubblici al cento per cento smoke-free. Per quanto riguarda le abitazioni e le auto private, l'unica arma è la consapevolezza e l'autolimitazione di chi fuma.

Tutto quello che c'è da sapere sulle staminali


Un nuovo strumento internazionale a disposizione degli utenti della Rete per illustrare le conquiste della ricerca nel campo delle cellule staminali e per dare ai pazienti tutte le informazioni sulle possibili terapie. È Closer Look at Stem Cells.

Un nuovo sito Web , che compie un anno , dalla Società Internazionale per la Ricerca sulle Cellule Staminali (Isscr). La nascita del portale, nelle intenzioni dei fondatori, risponde alla necessità di combattere il crescente sviluppo di cliniche ed enti che sponsorizzano costosi trattamenti con le cellule staminali, per i quali non sempre (e soprattutto non per tutti) esistono comprovati benefici e sicurezza per la salute.

Il portale offre ai pazienti le informazioni e gli strumenti necessari a prendere una decisione riguardo a un eventuale trattamento, a conoscere le terapie che utilizzano cellule staminali e a comprenderne l'efficacia.


 Il sito, inoltre, permette di verificare le credenziali di cliniche e istituti di ricerca con cui i pazienti vengono in contatto, di controllare che gli stessi istituti abbiano un comitato etico per i diritti e la tutela dei pazienti e che siano sotto la supervisione della Food and Drug Administration o dell'European Medicines Agency (le agenzie, rispettivamente statunitense ed europea, responsabili della sicurezza degli alimenti e dei medicinali).

L'utente potrà in questo modo capire se il trattamento loro proposto viene eseguito di routine o è sperimentale, se esistono terapie alternative, quali sono i rischi e i benefici cui va incontro e quali le basi scientifiche. In una sezione a parte, infine, l'Issrc fa il punto sulle cellule staminali e sulla ricerca illustrando gli studi e i progressi in questo campo. 

Sei ottimista ? Hai un errore nel cervello !!!


Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Questo proverbio ben si adatta alla schiera di ottimisti che, infischiandosene di tutto ciò che di negativo accade loro intorno, continua a vedere il bicchiere mezzo pieno. Come ci riescono? Secondo uno studio pubblicato su Nature Neuroscience, il cervello delle persone ottimiste ignora sistematicamente le brutte notizie, mentre è bravissimo a recepire, processare e tenere a mente quelle le informazioni positive. Semplicemente, si tappa i neuroni quando viene messo di fronte a situazioni che non gli piacciono, e compila la sua lista personale di bei ricordi, costruendosi un’immagine rosea (ma falsata) della realtà che lo circonda. Beati gli ottimisti, quindi, che vivono più felici? Mica tanto: se da una parte l’ottimismo fa bene alla salute, perché aiuta a tenere a bada i livelli di stress, quando diventa patologico può nuocere, impedendo alle persone di prendere le necessarie precauzioni contro qualsiasi rischio.

L’idea che un cervello ottimista si rifiuti di processare le cattive notizie è di un gruppo di ricerca coordinato da Tali Sharot dello University College London, in Gran Bretagna. Nel loro studio, i ricercatori hanno per prima cosa valutato l’indole di 19 volontari, dividendoli nei due gruppi di ottimisti e pessimisti. Successivamente, mentre il loro cervello veniva monitorato con risonanza magnetica funzionale, i volontari sono stati messi di fronte a un’ottantina di scenari ipotetici e poco piacevoli, se non tragici: dalla possibilità di perdere il lavoro a quella di ammalarsi di cancro. Per ogni situazione, i partecipanti dovevano azzardare una percentuale: la possibilità che la disgrazia potesse accadere a loro.

A questo punto, i ricercatori hanno rivelato le reali possibilità (stimate secondo statistiche) che un evento come il licenziamento o la malattia potesse colpirli da un giorno all’altro. Dopo averli messi di fronte alla realtà, hanno quindi chiesto ai volontari di esprimersi nuovamente sulle probabilità di ciascuno scenario. È uscito fuori che i più ottimisti tendevano a modificare le loro percentuali solo verso valori più alti, e cioè se quelle date dai ricercatori erano migliori di quanto aspettato. In caso contrario, non prendevano minimamente in considerazione i valori reali. Un esempio? Se la possibilità di ammalarsi di tumore fosse stata intorno al 30%, chi avevano detto in prima battuta 40% scendeva poi al 31%, mentre chi aveva azzardato un 10% aumenta solo lievemente il rischio. In altre parole, ignorava la realtà.

Grazie alla risonanza magnetica, i ricercatori sono stati in grado di risalire alla fonte (neurale) di questo comportamento. In tutti i partecipanti, ottimisti e pessimisti, quando la realtà era più rosea dell’immaginazione aumentava l’attività nei lobi frontali, l’area cerebrale deputata al processamento degli errori.

Al contrario, se le notizie erano peggiori di quanto aspettato, si registrava un’intensa attività solo nei lobi temporali delle persone più negative, mentre negli ottimisti, i segnali emessi da quest’area diventavano molto più deboli. Come si legge nello studio, è come se il cervello delle persone positive non riuscisse ad aggiornare le proprie valutazione della realtà, e premesse il bottone refresh solo quando la realtà supera le aspettative.

“ Questo lavoro mette in luce qualcosa che è sempre più evidente nelle neuroscienze, ossia che il compito di gran parte delle aree cerebrali coinvolte in processi decisionali è di testare le predizioni contro la realtà - ha commentato sulla Bbc Chris Chambers, neuroscienziato della Cardiff University, in Gran Bretagna, che non ha partecipato allo studio.

Ma gli autori mettono in guardia sul risvolto della medaglia: essere ostinatamente positivi non aiuta a prendersi le proprie responsabilità. Per esempio non porta le persone ad allacciare la cintura in automobile o a smettere di fumare, visto che, nelle loro menti, un incidente o una malattia sono sempre poco probabili.

La dieta che funziona


Amare il proprio corpo e migliorare la percezione di sé e della propria immagine. Sono questi i segreti per riuscire a seguire una dieta e ottenere i risultati sperati. Lo dimostra uno studio condotto da ricercatori della Universitade Técnica di Lisbona e della Bangor University (UK), in corso di pubblicazione su International Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity.
Più di un quarto della popolazione inglese e più di un terzo di quella americana è obesa; in Italia la percentuale di persone gravemente sovrappeso cresce ogni anno. L’obesità, in particolare, è una condizione grave perché aumenta il rischio di sviluppare diabete e malattie cardiovascolari, e può significativamente diminuire l’aspettativa di vita.
Lo studio anglo-portoghese è stato condotto su donne sovrappeso e obese inserite in un programma annuale di dimagrimento. Le partecipanti sono state divise in due gruppi: al primo – quello di controllo – sono state fornite informazioni generali sulla buona alimentazione, sulla gestione dello stress e sull’importanza di prendersi cura di sé; il secondo, invece, ha partecipato a 30 sessioni di gruppo, una volta a settimana, in cui si affrontavano temi come l’esercizio fisico, la fame nervosa, il miglioramento dell’immagine del proprio corpo e l’identificazione degli ostacoli personali che impediscono la perdita di peso.
Grazie a questionari e colloqui, i ricercatori hanno scoperto che le donne di quest’ultimo gruppo avevano migliorato la percezione del proprio corpo e consideravano meno problematici il loro stato di forma e le loro misure "extralarge". E, ancora più importante, erano state maggiormente in grado di auto-regolarsi nell'assunzione di cibo ed erano dimagrite di più – perdendo circa il 7% del loro peso di partenza – rispetto al 2% del gruppo di controllo.
“I nostri risultati - ha concluso Pedro J Texeira, a capo del gruppo di ricerca - mostrano una forte correlazione tra il miglioramento dell’immagine del proprio corpo, la riduzione dell’ansia dell’opinione altrui, e i cambiamenti positivi nell’alimentazione”.

Il vetro di Lévy per fotoni superman


Il passaggio della luce attraverso un materiale, per esempio quello delle fibre ottiche, è rallentato dalla resistenza del mezzo stesso. I ricercatori dell’Istituto nazionale per la fisica della materia (Infm-Cnr) e dal Laboratorio europeo di spettroscopia non lineare dell’Università di Firenze (Lens) hanno ora messo a punto uno speciale tipo di vetro in grado di trasportare i fotoni a velocità superiori a quelle osservate finora nei mezzi tradizionali.
Questo nuovo materiale, cui Nature dedica la copertina, è stato denominato “vetro di Lévy”, perché i fotoni si muovono al suo interno seguendo precisi schemi già noti ai matematici come “voli di Lévy”: si tratta di spostamenti apparentemente disordinati ma non casuali, che possono essere calcolati per descrivere, per esempio, i movimenti di animali predatori, le dinamiche delle migrazioni umane o l’andamento dei mercati azionari.
Il materiale è stato ottenuto miscelando vetro liquido (silicato di sodio), particelle di biossido di titanio (in grado di diffondere i fotoni) e sfere di vetro con diversi diametri. La combinazione di questi tre elementi impone alle particelle di luce di muoversi secondo i criteri descritti dal matematico francese Paul Lévy negli anni Trenta.
“Le proprietà insolite manifestate da questi materiali potranno essere utili per lo sviluppo di rivestimenti ottici innovativi e nuovi dispositivi laser. Ma potranno anche aiutarci a comprendere meglio i processi di trasporto di luce e suono, il comportamento di particelle come gli elettroni e faciliteranno lo studio dei fenomeni complessi che si propagano seguendo i voli di Lévy”, ha spiegato Diederik Wiersma, coordinatore dell’équipe di ricerca.
La prossima sfida, a detta degli autori dello studio, sarà sostituire il vetro con un polimero costruito con gli stessi criteri, in modo da ottenere materiali flessibili con potenziali applicazioni in diversi settori hi-tech, dall'elettronica avanzata alla fotonica. 

Il materiale più leggero del mondo

Mille volte più leggero dell’acqua: è il materiale (solido) meno denso al mondo. Tanto, da essere sollevato dal delicato ciuffo di un “soffione”. A realizzarlo sono stati i ricercatori della University of California Irvine, del California Institute of Technology e degli HRL Laboratories (Usa). La scoperta è stata pubblicata su Science. 
Il materiale sviluppato dai ricercatori è “vuoto” al 99.99 per cento. Il segreto, come spiega Tobias Schaedler della HRL Laboratories a capo dello studio, è nella struttura: un reticolo di tubi cavi, di dimensioni da millimetriche a nanometriche (ovvero fino a un miliardesimo di metro), opportunamente interconnessi, in modo gerarchico, per una densità di appena 0,9 milligrammi per centimetro cubo. Eppure la bassa densità non è la sola caratteristica a rendere unico il materiale.

Nel campo delle proprietà meccaniche infatti il “wafer” ha la capacità di assorbire una grande quantità di energia e un’altissima soglia di elasticità (definendo il comportamento elastico come la possibilità di riacquistare forme e caratteristiche proprie dopo una deformazione subita). E il materiale sviluppato dal team californiano è stato in grado di tornare alla forma originaria dopo una deformazione da compressione di oltre il 50 per cento. 

William Carter degli HRL Laboratories, uno degli autori, descrive così l'idea che ha portato alla nascita del materiale: “Gli edifici moderni, come la Tour Eiffel e il Golden Gate Bridge, sono incredibilmente leggeri e  forti, grazie alla loro architettura. Noi abbiamo rivoluzionato il concetto dei materiali leggeri portandolo su scale micro e nanoscopiche”. Così, “costringendo” gli atomi a raggrupparsi in determinate strutture, i ricercatori sono riusciti a migliorare la resistenza del materiale.

Il prototipi della scoperta sono fatti al 90 per cento di nickel, ma gli scienziati assicurano che potranno essere usate altre leghe per la fabbricazione. Il nuovo materiale potrà essere utilizzato come isolante termico all’interno di elettrodi per batterie e come assorbente di energia acustica, vibrazionale e da shock (utile per esempio nell'industria aerospaziale, in cerca di metodi sempre più efficienti per ammortizzare urti e accelerazioni).

Ricerche dimostrano che il rospo potrebbe dare l'allarme per i terremoti

Se il rospo abbandona le uova un terremoto potrebbe essere in arrivo. All'Aquila infatti, pochi giorni prima del terremoto dello scorso aprile, quasi tutti i rospi hanno abbandonato i siti di deposizione delle uova e la loro prole, cambiando improvvisamente il loro comportamento abituale. Lo raccontano, sulle pagine del Journal of Zoology, i ricercatori della Open University (Regno Unito) e della Società Zoologica di Londra.

Gli scienziati, coordinati da Rachel Grant, hanno osservato che il primo aprile, cinque giorni prima la scossa che ha devastato l'Abruzzo, il 96 per cento dei rospi maschi ha abbandonato le covate intorno al Lago Ruffino, a 74 chilometri dall'epicentro del terremoto. Fatto insolito, perché i siti di deposizione sono supervisionati dai rospi maschi, che normalmente rimangono nel sito fino a quando le uova non sono state tutte deposte. Inoltre, sebbene solitamente il numero dei maschi aumenti nella zona delle covate durante il periodo di luna piena, nel plenilunio immediatamente successivo al 6 aprile, nel luogo monitorato vi erano appena 34 esemplari. Decisamente meno rispetto agli anni precedenti nello stesso periodo quando ne sono stati contati tra 64 e 175.

Anche le coppie di rospi sono fuggite: tre giorni prima del sisma non ne era rimasta neanche una e nessuna covata fresca è stata trovata da quella data fino al 20 aprile, in seguito alle più forti scosse di assestamento. Ancora non è chiaro ai ricercatori cosa abbia provocato questo cambiamento nel comportamento degli anfibi, prima, durante e dopo il terremoto. Tuttavia gli scienziati hanno osservato che questo mutamento è avvenuto in coincidenza con alcuni sconvolgimenti nella ionosfera, il più alto strato elettromagnetico dell'atmosfera terrestre, causato forse dal rilascio di gas radon subito prima del terremoto.

“Il nostro è uno dei pochissimi studi che documentano il comportamento animale prima, durante e dopo un evento sismico, e suggerisce che i rospi siano in grado di percepire indizi pre-sismici come il rilascio di gas o la presenza di particelle cariche e di usarli come campanelli di allarme”, ha concluso la Grant.

Il futuro sarà il metallo soffiato


Nei laboratori  dell’ Università di Yale sta nascendo una nuova arte: quella di soffiare i metalli, per far assumere loro tutte le forme che si desidera. Il mastro è Jan Schroers, fisico della materia che, in effetti, più che un laboratorio ha una specie di bottega, in cui si trovano bottiglie metalliche di varie forme a scocca integra (cioè senza giunture) modellate ad aria. Ovviamente le leghe con cui si lavora non sono quelle classiche. Si chiamano Bulk Metallic Glasses (Bmgs, vetri metallici o metalli amorfi), e sono a metà tra vetro, plastica e metallo. “ Le plastiche hanno rivoluzionato l’industria del design per la loro versatilità, ma sono poco resistenti. D’altra parte, i metalli sono componenti strutturali robusti, ma le forme in cui possono essere forgiati sono limitate”, scrive Schroers nella presentazione del suo studio, su Materials Today.

Gli ultimi Bmgs che i ricercatori di Yale sono riusciti a realizzare sono flessibili, duttili e facilmente malleabili come il vetro e la plastica, ma resistenti e duraturi come l’acciaio. E non solo: “ Abbiamo dimostrato che questi materiali, modellati in geometrie complesse, possono essere soffiati come le plastiche”. Come riportati sul sito del lab, la pressione esercitata dai polmoni umani è sufficiente a plasmare i materiali prima che si cristallizzino. Questo metodo ad aria, infatti, elimina la frizione e permette di ottenere forme molto complicate, anche alle nanoscale

Per i Bmgs si usano leghe di vari metalli tra cui zirconio, nickel, titanio e rame. Invece che solidificare formando i normali reticoli cristallini (in cui gli atomi si trovano in posizioni ben precise, secondo rigide strutture geometriche che si ripetono), la struttura rimane disordinata (in gergo amorfa), come quella del vetro: è come se le molecole fossero fibre filiformi che si attorcigliano tra di loro in maniera casuale. Questo arrangiamento, che si ottiene lavorando a basse temperature e a basse pressioni, conferisce alle leghe il mix di proprietà.

I vantaggi sono facili da immaginare, anche perché i costi del processo sono quelli con cui si ottengono i prodotti di acciaio di fascia alta. In più, in un solo step è possibile riunire tre passaggi: il modellamento, l’unione di più parti e la rifinitura. Oltre alle bottiglie, il gruppo di Schroers ha già utilizzato il metodo per fabbricare piccoli dispositivi per microsistemi elettromeccanici (Mems) e per applicazioni nella biomedicina.

2012-02-23

Tecniche per migliorare la memoria


Le esperienze che si ricordano più facilmente sono quelle vissute con particolare intensità emotiva o dove accadeva qualcosa di strano. Pensiamo per esempio al primo bacio o al primo amore.. Da questo gli studiosi sono arrivati a capire che per aumentare l'efficacia della memoria bisognava pensare per immagine, utilizzando un semplice schema per rappresentare al meglio la parola, il nome, il numero o il concetto da imparare. Lo schema è il seguente:

  • Esagerazione
  • Movimento
  • Associazione Inusuale
  • Coinvolgimento Emotivo

L'unione di queste quattro caratteristiche fa si che il concetto che si vuole memorizzare vada immediatamente nella memoria a medio o lungo termine perchè ha un valore più forte. Per il cervello umano è più semplice pensare per immagini, quindi associando appunto un concetto ad una immagine, sarà più facile ripensare all'immagine stessa e poi ricavare il concetto. Non ci rendiamo conto questo è un sistema che utilizziamo naturalmente: chiudete gli occhi e pensate ad una bicicletta. Vi viene in mente la parola bicicletta oppure l'immagine visiva di una bici? Quello che bisogna imparare a fare dunque è creare delle immagini mentali che utilizzando lo schema riportato precedentemente attivino i nostri neuroni ad immagazzinare velocemente il concetto. Per concludere questa brevissima introduzione alle tecniche di memorizzazione facciamo qualche esempio.
Revoca: pensare ad un re ciccione appoggiato ad una vacca colorata di fuxia.
Recesso: si può pensare ad un re sempre ciccione appoggiato su un cesso mentre fa pipi!
In questi due esempi brevissimi si noti l'importanza del carico emotivo delle due immagini, è importante esagerare sempre per facilitare la nostra mente a ricordare.

Come ricordare dei numeri

L'arte della memorizzazione dei numeri è più complessa rispetto a quella dei concetti. Si associa ad ogni cifra da 0 a 9 una immagine standard e poi in base al numero da ricordare si creano le varie associazioni fra le immagini delle cifre. Per esempio mettiamo di dover memorizzare il numero 2190. Sappiamo che il numero due è rappresentato da un cigno, il numero uno da una candela, il numero nove da un palloncino ed infine lo zero da un salvagente. Per ricordare il numero 2190 potremmo pensare ad un enorme cigno nero che prende fuoco perchè si appoggia su una candela, la quale fa esplodere un palloncino che conteneva una fialetta puzzolente e così il cigno nero si butta in acqua per spegnere le fiamme ma siccome non sa nuotare prende un salvagente per salvarsi. Semplicissimo vero?

I corsi per la memoria

Esistono svariati corsi attualmente sul mercato per migliorare le proprie capacità di memorizzazione. Consiglio personalmente di cominciare partendo da un libro, se ne trovano molti su internet come per esempio “Più memoria” di Gianni Golfera oppure “Il segreto di una memoria prodigiosa” di Matteo Salvo. Dopo aver letto, capito e preso dimestichezza con i metodi descritti in questi libri si può pensare di passare ad un corso anche se i costi aumentano. Si può spendere anche un migliaio di euro per un week-end di esercitazioni. Il vantaggio è che degli esperti ci guideranno ad imparare le tecniche di memorizzazione efficacemente, anche grazie all'utilizzo di esempi pratici e sul posto che ci consentiranno di abbattere la barriera di scetticismo nei confronti di queste tecniche particolari che spesso limitano le nostre facoltà. Ad ogni modo il segreto per padroneggiare la memoria è quello di continuare a fare esercizio, una volta apprese le tecniche che ci facilitano nel processo di memorizzazione. Con impegno e costanza si possono ottenere risultati fantastici.

Cosa è la memoria a breve termine


La memoria è una funzione cognitiva che ci consente di ricordare le esperienze vissute. Possiamo definirla così: “la memoria è la capacità di acquisizione, elaborazione e restituzione di un'informazione”. Possiamo suddividere la memoria in tre categorie che si distinguono in:
  • Memoria a breve termine (MBT): rappresenta la parte della memoria nella quale sono presenti informazioni la prima volta che ci si presentano. Per esempio quando conosciamo una persona, il suo nome finisce nella MBT. Come dice il nome stesso il ricordo situato nella memoria a breve termine svanisce in poco tempo, basti pensare alla classica situazione in cui ci si presenta con qualcuno e dopo pochi minuti si è scordato il nome!
  • Memoria a medio termine (MMT): in questo tipo di memoria sono presenti le informazioni che abbiamo utilizzato almeno una volta come per esempio una strada che abbiamo percorso. Nella memoria a medio termine le informazioni restano per alcune settimane prima di venire dimenticate.
  • Memoria a lungo termine (MLT): in questo tipo di memoria sono presenti tutte le informazioni ed automatismi che ricordiamo facilmente, come per esempio il saper cucinare una pastasciutta o il saper andare in bicicletta e rappresenta i ricordi a lungo termine o perenni.

Misurare la memoria, lo span

E' possibile misurare la memoria attraverso un facile test chiamato “span”: in questo test si leggono per una volta una lista di nomi di vario tipo. Poi si fa una pausa di qualche minuto e si scrivono su un foglio di carta i nomi ricordati. In generale la media di un normale essere umano che non ha utilizzato tecniche di memorizzazione, varia dalle 5 alle 9 parole ricordate.


E' possibile migliorare la memoria?

Molti sono convinti che la memoria sia una dote naturale che si possiede o meno. Questa è una convinzione errata in quanto la memoria, come qualsiasi facoltà umana, può essere educata ed allenata, basta sapere come fare. Nel corso della storia sono stati molti i celebri mnemonisti, persone che hanno studiato e messo a punto sistemi per facilitare il ricordo di informazioni, numeri, nomi, discorsi o libri. Attualmente, grazie anche alle moderne tecnologie ed alle scoperte in campo medicofisiologico, sono state studiate e provate molte tecniche di memoria ed è stato stilata una lista di tecniche efficaci per migliorare la memorizzazione. In particolare un celebre mnemonista italiano, Gianni Golfera, ha messo a punto un sistema chiamato Gigotec per aiutare chiunque voglia, tramite un corso, ad aumentare le proprie capacità di memorizzazione. Gianni Golfera, insieme al suo staff, ha studiato in collaborazione con il San Raffaele di Milano le tecniche di memorizzazione ed è arrivato a conclusioni formidabili: è considerato infatti l'uomo con più memoria al mondo.

Julian Assange e Wikileaks


Julian Paul Assange ,  è un giornalista, programmatore e attivista australiano, noto principalmente per la sua collaborazione al sito WikiLeaks. Assange nasce a Townsville, nel Queensland in australia , il 3 luglio 1971. Si sposa a diciott'anni e diventa padre; poi si separa dalla moglie. Verso la fine degli anni ottanta diviene membro di un gruppo di hackers noto come "International Subversives" (Sovversivi internazionali) con lo pseudonimo di "Mendax" (da una frase di Orazio: "magnificamente mendace"). Nel 1991 subisce un'irruzione nella sua casa di Melbourne da parte della polizia federale australiana, secondo l'accusa di essersi infiltrato in vari computer appartenenti a un'università australiana e nel sistema informatico del Dipartimento della difesa americano. Nel 1992 gli vengono rivolti 24 capi di accusa di hacking. Assange è condannato, ma in seguito è rilasciato per buona condotta, dopo aver pagato una multa di 2100 dollari australiani.
Nel 1995 programma Strobe, software open-source dedicato al port scanning. Nel 1997 collabora alla stesura del libro Underground: Tales of Hacking, Madness and Obsession on the Electronic Frontier.
Dal 2003 al 2006, studia fisica e matematica all'Università di Melbourne, ma non ottiene una laurea. Studia anche filosofia e neuroscienze
A partire dal 2007 è tra i promotori del sito web Wikileaks, del quale si definisce editor in chief.
Il 28 novembre 2010, dopo averlo annunciato diverso tempo prima, WikiLeaks rende di pubblico dominio oltre 251.000 documenti diplomatici statunitensi, molti dei quali etichettati come "confidenziali" o "segreti". Il giorno seguente, il general attorney dell'Australia, Robert McClelland, dichiara alla stampa che l'Australia è intenzionata a investigare sulle attività di Assange e di Wikileaks. Afferma inoltre che, dal «punto di vista dell'Australia, ci potrebbe essere un buon numero di leggi violate con il rilascio di queste informazioni. La polizia federale australiana lo sta verificando». McClelland non esclude la possibilità del ritiro del passaporto australiano dell'informatico.
Di seguito potete leggere cliccando sulle parole sotto riportate alcuni dei migliaia di file riservati pubblicati da Assange

CLINTON , GUANTANAMO , COREA DEL NORD , IRAN , GERMANIA , ARMI , SPAGNA, ARMI NUCLEARI , RUSSIA , PUTIN , ITALIA-RUSSIA , CINA-GOOGLE , BERLUSCONI , GHEDDAFI


FILE 05 assange in italiano


La Clinton avallò uno spionaggio sui funzionari della Nazioni Unite
Come già detto prima nel 2009 sotto il nome di Hillary Clinton, sarebbe stata inviata ai diplomatici americani una direttiva - a metà tra diplomazia e spionaggio - in cui si chiedevano dati tecnici e password sui sistemi di comunicazione usati dai funzionari Onu, dettagliate informazioni biometriche su uomini chiave come sottosegretari o capi di agenzie speciali, oltre a numeri di carte di credito, indirizzi email e numeri di telefono. 


Il Baratto su Guantanamo
Rivelano alcuni documenti in possesso del New York Times che, dopo le numerose polemiche riguardanti Guantánamo, i diplomatici americani fecero pressioni su alcuni Paesi stranieri perché accettassero alcuni detenuti del carcere. Alla Slovenia fu detto che se voleva incontrare il presidente degli Stati Uniti Barack Obama avrebbe dovuto accettare un prigioniero mentre all’isola di Kiribati furono offerti incentivi per milioni di dollari in cambio di un gruppo di detenuti. Gli Stati Uniti suggerirono inoltre al Belgio che accettare più detenuti sarebbe stato «un modo low cost di emergere in Europa». 


La Corea Del nord un periocolo per l'Unione Europea
Un grosso pericolo per l'Europa si evince dagli archivi. L'Iran ha ottenuto sofisticati missili dalla Corea del Nord in grado di colpire l'Europa occidentale. Lo afferma il New York Times citando i documenti Wikileaks. 

>>> TORNA A JULIAN ASSANGE

FILE 04 assange in italiano


Motoscafi per Teheran
Le tensioni fra Roma e Washington emergono da un altro cablo inviato dall'ambasciata di Roma a Foggy Bottom. Gli Usa avevano chiesto all'Italia di bloccare la prevista consegna di 12 motoscafi all'Iran con i quali, era la paura americana, gli iraniani potevano colpire le navi statunitensi nel Golfo. Solo «dopo mesi di traccheggio nei quali 11 barche sono state consegnate», l'Italia fece marcia indietro. 


Pressioni sulla Germania
Funzionari americani ammonirono nel 2007 la Germania a non incriminare alcuni agenti della Cia che avevano rapito per errore un cittadino tedesco per un caso di omonimia con un sospetto terrorista. L'innocente era stato detenuto per mesi in Afghanistan. Un alto funzionario americano aveva detto ai tedeschi ''che non è nostra intenzione minacciare la Germania, ma piuttosto sollecitare il vostro governo a soppesare con cura ad ogni passo le possibili implicazioni nei rapporti tra i due paesi'', rivelano i documenti pubblicati  dal New York Times. 


Consegna di armi ai terroristi
I documenti pubblicati da Wikileaks descrivono la lotta fallimentare degli Stati Uniti per fermare la fornitura di armi da parte della Siria agli Hezbollah in Libano, che ha accumulato un enorme deposito dai tempi della guerra del 2006 contro Israele. Una settimana dopo la promessa del presidente Bashar al-Assad a un alto funzionario del dipartimento di Stato secondo cui non avrebbe spedito "nuove" armi agli Hezbollah, gli Stati Uniti si sono lamentati di aver avuto informazioni secondo cui la Siria stava fornendo armi sempre più sofisticate al gruppo terrorista. 


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FILE 03 assange in italiano


Spagna: le pressioni degli Usa
L'ambasciata Usa a Madrid utilizzò "mezzi importanti per frenare o boicottare" procedimenti giudiziari avviati in Spagna contro politici o militari statunitensi. Lo riferisce il quotidiano spagnolo 'El Pais', pubblicando i documenti del Dipartimento di Stato resi noti da Wikileaks. Inoltre per persuadere gli alleati ad accogliere i prigionieri di Guantanamo, Washington, in difficoltà, avrebbe anche offerto denaro: vennero offerti 85mila dollari per ogni prigioniero di Guantanamo accolto.


Armi nucleari in Germania Belgio e Olanda...e Italia?
Uno dei tanti rapporti diplomatici diffusi da Wikileaks viene dall’ambasciata USA, è diretto al Dipartimento di Stato a Berlino e fa riferimento a testate nucleari americane presenti sul territorio tedesco, turco, belga e olandese. La trascrizione dell’11 novembre 2009 è classificata “Confidenziale” riguarda il vicesegretario di Stato USA per gli Affari Europei Phil Gordon e il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Christoph Heusgen.
La presenza di armi nucleari in Belgio, Olanda, Turchia, Italia e Germania è sospettata da molti anni ma è sempre stata negata ufficialmente. Se ne era riparlato quest’anno con la pubblicazione di un articolo di Time e di un altro sul sito Global Research molto ripreso in rete. La conferma su quattro dei cinque stati legittima inevitabilmente delle domande sul quinto, l’Italia.  


La Russia «è virtualmente uno Stato della mafia».
Così i diplomatici americani secondo i documenti di Wikileaks riportati dai siti di alcuni quotidiani Usa. La Russia e le sue agenzie usano i boss della mafia per effettuare le loro operazioni, la relazione è così stretta che il Paese è divenuto «virtualmente uno stato della mafia».

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